La pietra non è l’unico materiale che è stato lavorato dall’uomo in antico. Certamente il legno si prestava meglio per duttilità e abbondanza, ma non si conserva nel tempo. Abbiamo detto nello scorso post che, prima della pietra ci sarebbe potuta essere un’ipotetica Età del Legno (d’altra parte, quando Homo sapiens è stato in grado di raffinare la sua arte, ha effettivamente iniziato a incidere non più solo la pietra, ma anche materiali particolari come ossa, palchi e avorio), non dobbiamo però pensare alla pietra come un “accontentarsi” di quel che è rimasto al convento dopo migliaia di anni: la roccia era certamente un materiale privilegiato per l’incisione e la pittura perché porta in sé i concetti di eternità e divinità. Oggi indaghiamo meglio il nostro legame istintivo e misterioso con la roccia, sede tellurica dell’energia divina.

La roccia e l’umano. Quanto detto nell’introduzione può trovare conferma se ci rivolgiamo al sito megalitico, trattato tempo fa, di Saint-Martin-de-Corléans presso Aosta: la presenza di strutture in legno è stata dedotta dallo studio del suolo e di alcuni fori praticati nel terreno ma, anche se potevano effettivamente permetterselo, perché i nostri antenati hanno continuato a privilegiare le strutture in pietra come il grande dolmen che sorge nel mezzo dell’antico santuario?
La pietra sacra può assumere vari aspetti agli occhi dell’essere umano: è l’inaccessibile sommità della vetta; il masso erratico che solitario si erge in una pianura; la tavola-altare che diventa un luogo centrale e permanente di sacralità; la grotta, dove la pietra rappresenta il segno, la casa, la manifestazione del divino per mezzo di chi ci vive; il menhir, custode della sepoltura collocato fin dalla preistoria accanto alle tombe per garantirne l’inviolabilità, proteggendole da ladri e animali, ma soprattutto allontanando la Morte stessa: “come la pietra incorruttibile, così l’anima del defunto doveva durare indefinitamente, senza disperdersi (l’eventuale simbolismo fallico delle pietre preistoriche conferma questo senso, perché il fallo è simbolo dell’esistenza, della forza, della durata)”*; l’acqua ad alta quota, invocata e temuta, attesta la sacralità del luogo con i santuari montani sorti presso sorgenti e laghi.

La pietra venerata. La durezza, la ruvidità e la permanenza sono una prova della natura divina della roccia: “non v’è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non v’è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. Il sasso, anzitutto, è. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, colpisce. Ancor prima di afferrarla per colpire, l’uomo urta contro la pietra, non necessariamente col corpo, ma per lo meno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza”*. Per reazione, la roccia rivela all’essere umano la sua natura opposta e precaria: così resistente, grande, con una forma particolare e Altra, la pietra decisamente non può essere umana. Di più, non solo è totalmente diversa dalla natura di Homo sapiens, ma lo è pure di quegli esseri che l’umano considera -sotto certi aspetti- a lui prossimi, gli animali e le piante. Per le caratteristiche sopra elencate, l’essere umano si trova di fronte a una realtà e una forza che non sono di questo mondo, come invece flora e fauna, ma devono necessariamente provenire da un’entità divina. Questa è in definitiva la visione della storia delle religioni: la pietra non è venerata in sé, ma lo è per ciò che rappresenta, ovvero in quanto manifestazione del divino (in gergo, ierofania).

Brevissima storia della sacralità della pietra. L’umano ha tracciato sulla pietra migliaia di segni che parlano ancora di noi (le incisioni camune, per dire, sono fondamenta della civiltà europea), ma cosa rappresentavano per i nostri antenati? Erano probabilmente segni sacri e profani di un’umanità bambina che s’interrogava sulla vita e ne figurava in simboli ogni nuova scoperta. I siti in cui le possiamo ancora osservare erano certamente spazi sacri con una particolarità: erano zone ben precise in cui si poteva entrare in contatto con il sacro.
Queste testimonianze di una cultura collettiva, questa ricerca di un contatto con il divino attraverso l’incisione della pietra (evocando o esorcizzando) si osservano dalla preistoria al Medioevo: in epoca medioevale i santuari preistorici diventano sede di miracoli e di culto dei cosiddetti santi alpini e, dove non innestano un culto cristiano e pratiche di devozione, si legano nelle leggende a sassi dalla forma bizzarra, a incisioni, a massi isolati.
Riassumendo, la pietra è dunque sacra, perché sede di presenze divine che, a loro volta, danno vita a entità fantastiche che popolano rocce e montagne e che assumono connotazioni regionali, a seconda delle risposte dell’ambiente alle esigenze spirituali e psicologiche degli esseri umani.
Per quel che riguarda la dimensione delle Alpi si può delineare brevemente il seguente quadro: non sappiamo nulla delle credenze di chi lasciò le rocce incise, ma possiamo ragionevolmente immaginare che parte di quel bagaglio religioso confluì nelle divinità celtiche (di cui disponiamo di poche, ma perlomeno scritte, fonti); a queste subentrarono poi gli dei del pantheon romano che diventarono nel Medioevo i personaggi che il folclore locale opponeva a santi e pellegrini giunti sulle montagne per evangelizzare e cristianizzarne le popolazioni. Qui dobbiamo far risalire l’origine delle figure demoniache, ispirate alle credenze precristiane, che ben conosciamo: il Krampus e i suoi simili, Perchta e i partecipanti alla Caccia selvaggia, il diavolo, le streghe e tutti coloro che sono finiti sotto quella categoria narrativa che alcuni chiamano Purgatori alpestri.

* Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni.