Per quanto esistano nella mitologia greca esempi di ninfe tramutate in animali, le loro colleghe trasformate in piante sono molto più numerose. Dobbiamo porci delle domande a riguardo. Abbiamo osservato attraverso numerosi esempi come i personaggi femminili dotati di qualche particolarità (dee, eroine) molto spesso possano essere fatte risalire a retaggi di qualche divinità autoctona. Le dee locali sono legate in modo strettissimo al territorio e ancora oggi il folclore contadino parla di fate o streghe che hanno dato vita a qualche tratto peculiare del paesaggio: una fonte, una montagna, un corso d’acqua. Perché questi esseri sono prettamente di natura femminile? Semplice: sono sfaccettature della Madre Terra, entità mutevoli ma sempre in grado di procreare, tratto esclusivamente femminile.

L’importanza (o no) del padre. Che l’avvento delle popolazioni indoeuropee abbia stroncato culti e inquinato le credenze relative alle divinità femminili si spiega anche con la necessità degli ultimi arrivati di controllare le nascite e, soprattutto, la legittimità del padre: il prestigio e la ricchezza dell’uomo passava per la sua discendenza e i figli illegittimi non erano utili. Il fulcro delle credenze più antiche era la fertilità femminile, a prescindere dal modo o con chi i nati venivano concepiti, e possiamo perciò facilmente capire come si considerassero possibili gravidanze avute da elementi extra-umani o inanimati (nuvole, spiriti, pietre). Non si trattava di ignoranza: i popoli primitivi sapevano benissimo che la donna restava ingravidata dopo l’accoppiamento, dopotutto vivevano a stretto contatto con il loro corpo e avevano modo di osservare da vicino tutto il ciclo vitale degli animali, cosa che non avviene più per noi umani contemporanei. Ma l’essenza del nuovo nato, il perché certi concepimenti avevano luogo e altri no, quello aveva la sua ragione in qualcosa di più alto (e forse è ancora così oggi).

Da due a una. Nelle grotte del Paleolitico i segni più arcaici sono quelli che rappresentano vulve e falli, non perché ci fosse della depravazione in chi dipinse tali caverne (anche se in forma archetipale forse quest’arte è giunta fino a noi attraverso certi “imbrattamenti urbani”), ma venivano raffigurati come principi della vita, secondo una rappresentazione a coppia femmina + maschio = vita. Per quanto il significato profondo della pittura rupestre non sia ancora stato interpretato, in maniera quasi unanime gli studiosi ritengono si tratti di un linguaggio in codice dove a un segno femminile se ne oppone sempre uno maschile (vulva-fallo, triangolo-freccia, bisonte-cavallo). Allo stesso modo è stato posto l’accento sulle numerosissime decorazioni apposte su vasellame, oggetti vari, statuine del Neolitico che andrebbero a formare un linguaggio devozionale dedicato a un’unica divinità femminile, generatrice di ogni cosa e portatrice di vita. Che cosa è cambiato tra i due sistemi di credenze? Si è passati dal Paleolitico al Neolitico e, con quest’ultimo, alla rivoluzione agraria: Homo sapiens ha compreso come manipolare la produttività del terreno e la sua attenzione si è spostata dal mistero dell’origine della vita (femmina + maschio), per concentrarsi unicamente sul processo di nascita, crescita, morte (unica divinità che presiede a tutto il processo procreativo, quindi una dea femminile). Questo è il momento storico in cui la Dea diventa Tellus Mater, come la chiamavano i latini, cioè Madre Terra… l’uomo ha compreso come piegare la natura ai suoi bisogni di sostentamento ma è ancora in balia delle forze naturali e ha bisogno di pregare una divinità che sia clemente e conceda abbondanza.

Da una a uno. Le ninfe vegetali dove stanno in tutto questo? In un punto in cui l’essere umano non era completamente agricolo e frequentava ancora il bosco? Le ninfe mutate in alberi sono la personificazione dell’addomesticamento di alcune specie? Sono questioni che si perdono nella notte dei tempi, ma quello che possiamo dire con sufficiente certezza è che ancora si veneravano dee locali quando gli Indoeuropei giunsero nel continente dalle steppe eurasiatiche; si incontrarono due mondi opposti, dai quali deriva la nostra storia: un popolo stanziale e dedito all’agricoltura così come a tutte le attività che richiedevano una dimora fissa (ceramica soprattutto, ma anche la lavorazione di metalli, pelli e legname… tutto ciò su cui si poteva riprodurre il codice sacro della dea) e sostanzialmente pacifico, perché lo sviluppo della tecnologia non si concilia con uno stato di guerra. Dall’altra parte i pastori nomadi, governati da una casta di guerrieri che invadevano lentamente l’Europa, alla ricerca di pascoli freschi e in fuga dall’aridità del cambiamento climatico in atto a est. Soggiogare le popolazioni stanziali non dev’essere stato difficile per un popolo dotato di cavalli e armi di metallo, più difficile fu convivere e imporre la propria visione del mondo: quella patriarcale, con un dio maschio a presiedere alla realtà. In questo contesto sono da inserirsi tutti i miti che vedono ninfe, dee e eroine stuprate, sedotte, detronizzate dalle divinità che vanno poi a formare la pletora olimpica. Zeus e Poseidone, ma anche Apollo: se i primi due sono celebri per le loro avventure amorose, quest’ultimo è senz’altro schierato in prima fila quando si tratta d’importunare le ninfe.

Se è uno su tante. Non si tratta di scaramucce amorose (anche se a volte finite tragicamente) tra esseri prettamente liminari, selvatici che potrebbero essere retaggio del binomio paleolitico essenza femminile-essenza maschile, come Pan che insegue le Ninfe. Qui abbiamo un dio civilizzato, patrono delle arti, della musica e della tecnica che s’impone su delle giovani (ricordiamo che ninfa in greco era anche il nome delle ragazze in età da marito) che non hanno altra difesa se non mutarsi in pianta.
Esemplare di questo processo è l’episodio dell’uccisione di Pitone: Apollo combatte l’enorme serpente che custodisce l’oracolo di Delfi e se ne impossessa. Sappiamo ormai fin troppo bene che il serpente è l’antico simbolo ctonio, essenza femminile della terra e della rigenerazione; la sua uccisione da parte del dio è quanto di più eloquente le antiche storie possano dirci: il dio del sole indoeuropeo schiaccia la dea terra del luogo, appropriandosi del suo potere e sottomettendola come sua sacerdotessa (con il nome di Pizia, ovvero pitonessa).
Se attraverso i racconti mitologici ci sono giunti i nomi di ninfe legate a determinati alberi, possiamo immaginare che in un passato remoto esistessero sacerdotesse che officiavano a dee arboree: driadi alla quercia, melie al frassino, cariatidi al noce, meliadi al melo… e chissà quante altre di cui non abbiamo più memoria.