Un volume, uscito per la prima volta nel 1890, che per molti potrebbe rappresentare l’idea stessa di “libro di antropologia”: tantissimi i temi trattati, così come le tradizioni antiche e le usanze di tutto il mondo esaminate, incontra gli interessi di chi è curioso di leggende europee, ma anche di chi gradisce un certo gusto esotico.

In quarta copertina si può leggere: “Un’antica leggenda italica -in ricordo del famoso ramo d’oro che Enea colse prima di entrare nel regno dell’Ade- voleva ‘re del bosco’ colui il quale si fosse dimostrato capace di uccidere il sacerdote del santuario a Nemi e di strappare un ramo dall’albero che si trovava nel recinto. Frazer fu particolarmente incuriosito dal racconto e volle indagarne le origini, prendendo in esame miti, pratiche religiose e magiche, e riti di ogni tempo e luogo”. E il problema sta proprio qui. Figli del loro tempo, libro e autore patiscono sia il tipico approccio enciclopedico (tanto, tutto, troppo in pratica), che la concezione etnocentrica per cui la società europea sarebbe punto d’arrivo dell’evoluzione sociale di tutti i popoli del mondo. Tenuto conto della prospettiva storica e del periodo in cui venne redatto, il Ramo d’oro è comunque una miniera di spunti e riflessioni da cui hanno attinto studiosi e scrittori di tutto il mondo da ormai moltissimi anni. Sia pure uno studio datato quest’opera resta rivoluzionaria per il suo tempo e per il contributo apportato in seguito alle scienze sociali.

Affascinato da una leggenda ambientata presso il lago di Nemi (Lazio) secondo la quale il sacerdote del tempio di Diana dovesse ogni anno sfidare in un duello mortale il pretendente alla medesima carica, Frazer ipotizzò che si trattasse del residuo di una credenza ancora più antica, legata a un periodo ancestrale in cui gli uomini credevano e veneravano spiriti della vegetazione che portavano fertilità e abbondanza. Secondo l’autore la natura veniva concepita prima in maniera animista, poi in una successiva fase evolutiva le forze sovrannaturali sarebbero state identificate con manifestazioni fisiche degli alberi stessi. Particolare attenzione è data al culto degli alberi e soprattutto al ruolo della quercia, le cui antiche credenze sarebbero oggi riscontrabili ancora in una serie di usanze dei contadini di tutta Europa, come la vestizione di rami e frasche di alcune persone che in periodi particolari diventano re e regine della primavera, o di fantocci che prima o dopo l’estate vengono bruciati in falò sacri… L’uccisione dello spirito arboreo sarebbe necessaria ad un certo punto dell’anno per poterne garantire l’efficacia sulla natura: se lo spirito non è più vitale, dev’essere sostituito da uno più giovane e forte. L’autore descrive quindi come in tutta l’area europea e mediterranea esistano varie divinità che subiscono la medesima sorte e che sono tutte collegate a qualche pianta specifica: Adone, Attis, Osiride, Dioniso, Baldr. Di queste divinità maschili esistono anche alcuni corrispettivi femminili, individuati dall’autore con Demetra/Persefone e con la Madre del grano del nord Europa. La conclusione finale di Frazer è che il Ramo d’oro della leggenda fosse in realtà il vischio, che cresce sulla quercia, e che il nuovo sacerdote doveva metaforicamente raccogliere per poter prendere il posto del suo predecessore, versione civilizzata di un’usanza ancora più antica quando il consorte della sacerdotessa del santuario di Nemi (legata al culto di Diana, ma più probabilmente residuo del culto della Dea Madre) doveva realmente uccidere il sacerdote ormai vecchio e non più portatore di vita.