Come ormai ho scritto più e più volte, non sono mai molto a mio agio quando si parla di sante e santi: sono nata e cresciuta in una piccola realtà protestante (che, come ormai ho scritto più e più volte, non venerano santi né sante poiché le loro vicende non fanno parte della Bibbia) e in una famiglia assolutamente non praticante. Insomma, a parlar di santi mi sento proprio un pesce fuor d’acqua. E chi mi legge da un po’ avrà imparato a conoscermi: se ne parlo, di solito l’agiografia ha ben poco spazio, ma anzi lo troveranno il folclore e tutte le riminiscenze che una particolare figura intrattiene con il suo passato pagano. Dunque eccomi, dopo averci girato intorno come feci a suo tempo -pensate un po’!- con la festa di Halloween, a parlare di un santo amatissimo e fortemente legato a questo periodo dell’anno, ovvero San Martino.

11 novembre, san Martino. Dopo le piogge di fine ottobre dovrebbe fare bel tempo per qualche giorno, la temperatura alzarsi e rispettare il proverbio che recita: “L’estate di S. Martino dura tre giorni e un pochino”. Fino a non troppo tempo fa questa festa popolare era nota perché era il momento che chiudeva l’annata agricola e i braccianti facevano San Martino, un modo di dire che non si usa più, col significato di traslocare, poiché si cambiava casa in cerca di nuova occupazione. Non solo, era il giorno che segnava l’inizio dell’anno giudiziario, riaprivano le scuole e gli uffici pubblici; altrove era una data di precetto con grandi mercati, falò e banchetti in cui si brindava con vino novello e “anche per i bambini era festa grande perché il santo portava loro regalini scandendo dalla cappa del camino o, se erano stati capricciosi, depositava una frusta ammonitrice detta in Francia Martin batôn o martinet: usanze tipiche dei periodi di Capodanno o di rinnovamento temporale” scrive A. Cattabiani in Lunario. Il Capodanno a cui si deve far riferimento è quello celtico, confluito poi nelle festività di Ognissanti e Commemorazione dei defunti, nonché dall’odierno Halloween, e non a caso la festa del santo cade esattamente dodici giorni dopo.
I Dodici giorni per eccellenza sono quelli che seguono il Natale e ne avevamo parlato qui.
Nonostante presieda una ventina di cittadine italiane, san Martino morì a Tours, in Francia, motivo per cui il suo culto -e le usanze ad esso legate- sono di origine gallica ed ecco perché questo giorno, l’11 novembre, sotto il cristianesimo finì per rappresentare il capodanno contadino: il vescovo francese divenne uno dei più celebri santi dell’Occidente e la sua festa si rivelò perfetta per cristianizzare le tradizioni pagane (celtiche) del periodo, di dodici giorni appunto, che segnava il passaggio all’anno nuovo.

Dio celtico. “Per renderlo più accetto alle popolazioni pagane che si stavano convertendo al cristianesimo si inventò la leggenda della cappa” scrive Cattabiani. Martino, entrato quindicenne nell’esercito per seguire le orme del padre, era un circitor ovvero addetto a cavallo alla ronda notturna tra le guarnigioni. Secondo il noto racconto, una notte nei pressi della città gallica di Amiens, s’imbatté in un povero infreddolito e, mosso a pietà, tagliò in due il suo mantello -la clamide romana- per darne metà all’uomo che si rivelerà poi essere una manifestazione del Cristo. Secondo alcuni storici nell’area di provenienza del santo, la Pannonia celtica, era venerato un Dio a cavallo che indossava una mantella corta, ritenuto un cavaliere del mondo infero e, per questo, trionfatore della morte (secondo la concezione arcaica già vista più volte per cui il sottosuolo era luogo della sepoltura e della morte tanto quanto punto di ripartenza, di nascita e rinascita a nuova vita). Questo dio a cavallo era considerato in definitiva un dio della vegetazione che “superava la morte attraverso la morte” garantendo il rinnovamento della natura dopo la morte invernale; si ritiene che questo suo carattere fosse confermato dall’attributo della ruota, simbolo degli inferi secondo la tradizione, così come viene raffigurato in area bulgara e finendo sotto la dicitura di Cavaliere Trace: un destriero nero e una corta mantella dello stesso colore. Questo permetterebbe di “capire il motivo dello sviluppo straordinario del culto di San Martino nelle Gallie, di cui fu l’evangelizzatore, e poi nelle zone limitrofe, compresa l’Italia settentrionale, che erano di antiche tradizioni celtiche”: un’ulteriore metamorfosi la fece slegandosi dalla dimensione infera, mutando iconograficamente -il cavallo del santo è bianco- e collezionando racconti in cui combatte e sconfigge il diavolo, distaccandosi per sempre da Lucifero, signore cristiano degli inferi. Popolare soprattutto in Francia, divenne patrono della monarchia francese e la mantella “o meglio, quella che si riteneva la sua mantella, era diventata una sorta di palladio nazionale, conservata nella cappella (chapelle) reale: così detta perché custodiva la celebre cappa (chape). Sicché anche il termine cappellano (chapelain), che originariamente indicava il custode della cappa di San Martino, è derivato dal culto del santo”.

Memorie a tavola. Nella pianura padana San Martino è tradizionalmente festeggiato con lauti banchetti dove non possono mancare, secondo un proverbio piemontese vino novello, castagne e oca (“Oca, castagne e vin, ten tüt pe’ San Martin”). Il vino novello, di cui i proverbi ammoniscono di non fidarsi perché leggero e facile ad andar giù eccessivamente, è pronto in questi giorni, ma ancora più importanti sono le oche e le castagne, residui quasi di antichissimi banchetti in onore del dio cavaliere. Le oche, che proprio in questo periodo migrano e sorvolano i cieli delle zone di cui stiamo parlando, sono infatti legate al santo attraverso alcune leggende, ma è significativo che fossero anche animali sacri ai Celti, connessi all’aldilà e alla Dea madre; sempre secondo Cattabiani: “Un’eco della credenza è rimasta nel gioco dell’oca, di origine celtica, che ha al suo centro come meta finale proprio quest’animale. A loro volta i maestri costruttori delle cattedrali gotiche, discendenti dei Celti, avevano adottato come distintivo di riconoscimento una zampa d’oca e fra di loro si chiamavano jars, oche.”. Le castagne non di meno sono un cibo connesso ai morti se un tempo in Piemonte, e in altre zone dell’Europa celtica, se ne lasciavano sul tavolo nella notte fra I° e 2 novembre per i poveri morti (mentre in Francia, a Marsiglia per la precisione, una consuetudine vuole che si nasconda una castagna sotto il cuscino per evitare che gli spiriti dei morti vengano a tirare per i piedi chi sta dormendo!).

Nota: tutti i virgolettati sono estrapolati dal “Lunario” di Alfredo Cattabiani.