Il mese di giugno è il doppio di dicembre.
Perché non fare anche qui un piccolo calendario del (non) Avvento per scoprire cosa accadrà in questa parentesi dell’anno?

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La fata che fila al chiaro di luna.

Una roccia in Val Pellice che porta un nome curioso: Roccha filera, ossia la roccia da cui si fila, nota anche come Roccha d’la fantina.
Nella notte di San Giovanni una misteriosa figura, bianca e ossuta, si sporge dall’alto, un piede appoggiato alla vicina roccia imponente, e inizia a filare una matassa di lana, anch’essa bianca.
Pian piano un lungo filo comincia a dipanarsi dalla lana grezza e comincia a scendere lungo la roccia attraverso le mani esperte della fata. Alle prime luci del mattino, la creatura fatata ritira il lavoro, riavvolge il gomitolo ottenuto e scompare nel nulla fino all’anno successivo.
Si dice che se si passasse sotto la roccia con la fata intenta nel suo lavoro e si riuscisse a toccare il magico filo se ne otterrebbe un’immensa fortuna.
L’attività di filare era importante per i popoli del passato: si credeva che la vita degli umani dipendesse da un filo custodito da divinità femminili (Moire per i Greci, Parche per i Romani e Norne per i Norreni).
La parola fatum a Roma indicava il destino, ma per esprimere la sorte assegnata a ciascuno di noi si usava il plurale ossia, fata; dalla credenza diffusa in queste divinità filatrici del destino deriva l’espressione vita appesa a un filo”.

Come maggio, intitolato a Maia, anche il mese di giugno è dedicato a una dea, Giunone: conosciamo Giunone come regina degli dei in-quanto-moglie-del-dio-supremo-Giove, ma questa sua caratteristica (il potere acquisito tramite le nozze) è in gran parte frutto di un processo di ellenizzazione.
In origine Giunone era regina non perché accessorio di Giove, ma perché sua pari: era la massima divinità femminile tra le dee romane e, accanto allo sposo, godeva della stessa importanza. Anzi, si può quasi dire che il destino delle due somme divinità fosse quello di formare infine una coppia, se non la coppia per eccellenza.
Ma cosa sappiamo della Giunone originale? Molto poco. Si suppone che derivasse dall’etrusca Uni e che la sua assimilazione con la greca Era fosse dovuta al fatto di presiedere al matrimonio.
Si ipotizza che l’inizio dell’anno fosse dominato da una componente maschile dei mesi, dedicati a dei, e che la primavera vedesse invece un’inversione di tendenza cominciando con aprile (da aphrodite) e terminando con giugno: la dea/le dee da ninfe primaverili diventano compagne di uno spirito maschile e giungono a nozze in quello che continua ancora oggi a essere considerato il mese più adatto ai matrimoni.
(No, non c’entra il meteo. C’entrano i Romani, ma pensa).

Secondo una leggenda italiana nella notte di San Giovanni le streghe si radunavano sotto un grande albero di noci nei pressi di Benevento. La pianta aveva già la sua storia: dedicata a una qualche dea lunare (forse Artemide), fu poi oggetto di rituali da parte di popolazioni longobarde e venne perciò fatta sradicare nel VII secolo.
Un nuovo noce ricrebbe nello stesso punto, opera del Maligno: i tempi erano passati e si consolidò, a quell’epoca, l’idea che le streghe svolgessero lì i loro incontri notturni. Il noce di Benevento scomparve per sempre nel secolo XVII, ma la fantasia popolare vuole che le streghe abbiano trovato un altro misterioso albero dove radunarsi.
Si noti che il nome delle streghe del posto, le janare, sarebbe da collegare a ianua (=porta) per la loro capacità di infilarsi negli spiragli dell’uscio… anche se la tentazione di associarlo alla porta solstiziale estiva, che coincideva con gli stessi giorni e di cui parleremo presto, è forte!
Ma jana potrebbe ricondurre anche a Diana. Abbiamo visto che, durante la caccia alle streghe, l’identificazione fra la strega e la dea Diana era attestata soprattutto nella campagne nostrane… la sua connessione con le janare non ci stupisce dunque più di tanto.
Curioso è semmai che, nel resto del continente, Diana/Artemide abbia tra i suoi simboli proprio il noce. Lo si evince per esempio dal mito di Caria, una principessa-ninfa trasformata in questa pianta e legata alla dea Artemide.
Albero attribuito a dee, streghe e fate, il noce tradisce una simbologia doppia, con un aspetto diurno e benefico, apportatore di nutrimento, e uno notturno e venefico (poiché si riteneva popolarmente che nessuna pianta riuscisse a crescere in prossimità delle sue radici tossiche).

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La notte di San Giovanni, cioè quella del 23 giugno, è il momento in cui, secondo la tradizione popolare, si preparano rimedi o protezioni e nelle campagne si accendevano falò sulle alture (infondendo energia al sole che iniziava il suo cammino verso l’apparente morte invernale).
Ma soprattutto si metteva una scopa sull’uscio della porta per tenere alla larga le streghe: era un rimedio accertato, perché la strega non avrebbe resistito alla tentazione di contare tutte le ramaglie della scopa e, fattosi giorno, sarebbe così stata scoperta.
E per proteggere se stessi si portavano sotto la camicia le erbe di San Giovanni (iperico, ruta, aglio e artemisia; l’iperico, in particolare, ha dei petali che possono macchiare di rosso se strofinati tra le dita e tale tinta prende volgarmente il nome di “sangue di San Giovanni”).
Ai Romani risale invece l’usanza delle fave per scacciare le streghe: tradizione che deriva dalle Calende delle fave (I° giugno) quando si mangiava ritualmente una farinata di fave in onore della dea Carna.
Carna tutelava i cardini delle porte, era una guardiana delle soglie (domestiche in questo caso) e tra le sue funzioni vi era quella di proteggere i neonati dagli attacchi notturni delle striges, donne magicamente trasformate in uccelli spaventosi.
Una delle principali caratteristiche delle streghe è il volo notturno e, in epoca medievale, si assiste allo slittamento semantico di striges in streghe. A capo degli stormi di streghe era Diana, dea lunare che continuò a sopravvivere a lungo nei villaggi rurali (in latino pagi, da cui pagani).

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Ogni mese porta in sé un avvenimento astrale che permetteva di contare (addomesticare) il tempo: a giugno abbiamo il solstizio d’estate.
Come quello invernale, presenta due peculiarità: è una cosiddetta porta dell’anno e -o forse proprio per questo- la Chiesa cattolica vi ha posto vicino un giorno di precetto.
Cosa s’intende per porta dell’anno?
Furono i Greci a chiamare così i due solstizi: quello invernale era la “porta degli dei o degli immortali” (rivolta a Noto, a sud, come il sole che al solstizio invernale si trova a sud dell’equatore) e quello estivo la “porta degli uomini” rivolta a Borea, ovvero a nord, all’opposto del precedente.
Nell’antichità, erano marcatori dei due grandi cicli temporali “inverno-estate” e “estate-inverno”, momenti considerati porte su un nuovo periodo calendariale, che andavano custoditi e protetti da influssi negativi.
La Chiesa cattolica, nel momento in cui decise di far coincidere la figura di Gesù Cristo con la divinità solare pagana, si prestò a un processo analogo per i solstizi: i guardiani cristiani delle porte dell’anno sono San Giovanni Apostolo il 27 Dicembre e San Giovanni Battista il 24 Giugno.
(Sulla non perfetta coincidenza delle date: il solstizio cade effettivamente il 21, ma i suoi effetti sono percepibili solo qualche giorno dopo e, nei secoli, i giorni spicci del calendario hanno subito uno leggero slittamento, es. il Natale piazzato qualche giorno dopo il solstizio d’inverno.)
Johannes stava, per la tradizione popolare, a indicare il rapporto tra il santo e il dio romano Giano (Ianus) che, aprendo l’anno, dava il nome a gennaio.
In relazione con la porta (ianua), i due San Giovanni acquisirono così il ruolo di ianitores (custodi, guardiani) delle porte solstiziali.

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L’importanza attribuita, da buona parte dell’umanità, a incontrovertibili eventi astronomici, ha fatto sì che ogni cultura abbia costruito attorno a essi un’impalcatura mitica propria… come, ovviamente i solstizi!
Un popolo pastore come quello dei Celti teneva conto di ciç per regolare le attività di transumanza e allevamento e il solstizio estivo era uno dei cardini della vita religiosa e quotidiana con il nome di Litha.
Le celebrazioni celtiche si svolgevano di notte (poiché essi ritenevano che il giorno nascesse al tramonto) con grandi falò: questo anche perché i riti di queste popolazioni si svolgevano all’aperto, non era tradizione svolgerli dentro templi o edifici appositi).
Il falò di San Giovanni resta tutt’ora una tradizione e uno dei più celebri si svolge proprio a Torino: ha tuttora una valenza profetica (a seconda della direzione in cui collassa la catasta di legna si può dedurre come sarà l’annata per la città).
Oggi si preparavano rimedi e protezioni poiché era la porta degli uomini, dedicata al mondo circostante: riti e usanze del solstizio estivo avevano come scopo la protezione delle messi e delle persone, cose decisamente mondane (al contrario la prima parte dell’anno era rivolta al sovrannaturale)!
Se i primi sei mesi dell’anno erano votati alla grazia divina (ecco forse perché portano nomi di divinità), ora lo sguardo umano si posava sul mondo circostante e ci si accingeva a prendersene cura, proteggerlo e vegliarlo in vista dell’inverno.

Leggi l’articolo intero Di lumache e corna.

Tra le tradizioni legate al giorno (o meglio, la notte!) di San Giovanni ce n’è anche una che ci porta nella capitale d’Italia: la sera del 23 giugno è infatti usanza banchettare a lumache.
La credenza è che fosse un rimedio -l’ennesimo- per scongiurare l’incontro con le streghe che, si sa, quella notte sono particolarmente attive… Secondo altre versioni la spiegazione è da ricercarsi nella superstizione di mangiare/eliminare creature malevole, perché cornute.
In storia delle religioni, le corna sono simbolo per eccellenza di abbondanza e fertilità, sopratutto quelle bovine e caprine. Potrebbe essere così anche per la lumaca, che già di suo è carica di significati rigenerativi grazie alla chiocciola: il simbolismo della spirale e dell’acqua sono da sempre, e quasi ovunque, connessi a nascita e vita.
Dopo l’avvento del Cristianesimo le corna, attributo animale e affatto umano, per la religione ufficiale rappresentavano esclusivamente la ferinità e, di conseguenza, la non-umanità: lontane dal modello di uomo creato dalla perfezione di Dio, diventano infine tratto distintivo del diavolo.
Suggestione su luglio e sulla festa romana delle Nonae Caprotine: ricorrenza anomala perché, nel calendario romano, le idi e le none erano rispettivamente sotto la tutela di Giunone e di Giove; qui le none di luglio sono assegnate a Iuno Caprotina, giorno in cui le donne sacrificavano sotto un caprifico (fico selvatico).
Non vi sono certezze di una correlazione tra la capra e questa festa, ma in numerose raffigurazioni romane Giunone indossa però l’egida di capra (ispirata alla dea etrusca Uni o alla Iuno Sospita dei Lanuvini): era una divinità da cui forse dipendeva la fecondità dei campi come Signora del tempo atmosferico e della pioggia.