Abbiamo visto nei due precedenti post come la nostra storia culturale passi anche dalla tavola. Tutto ciò che finisce nei nostri piatti ha però a sua volta una storia e, per i vegetali, spesso questa si svolge in campo o nel bosco. Attraverso tutte le nostre riflessioni sull’importanza dello spirito vegetale, abbiamo capito quanto importante fosse la Natura per l’uomo antico, ma che cosa sappiamo invece del pensiero di quegli uomini sui frutti che mangiavano?

Tante specie ma poche informazioni. Purtroppo, si tratta di un campo molto difficile da indagare perché per tempi molto remoti non abbiamo informazioni né testimonianze. Solo in epoca romana possiamo rintracciare testi letterari e agronomici che ne parlano: pochi resoconti che però ci trasmettono un grande interesse, in particolar modo per la frutta. Questa è l’epoca dell’adattamento definitivo in Europa di coltivazioni non autoctone come l’albicocco, il ciliegio e il pesco. Accanto al consolidamento di queste coltivazioni abbiamo però anche un sorprendente numero di varietà di specie locali: alcuni testi parlano di quarantaquattro tipi di fichi, trentadue di mele e ben sessanta pere! L’etimologia e la storia delle parole testimoniano il primato della mela: negli idiomi germanici come in quelli romani spesso la parola che in origine designa il frutto generico diventa poi specifico della mela. Nel latino arcaico come in quello classico, il termine pomum indica tutta la frutta prodotta da alberi e arbusti; più nello specifico con malum ci si riferisce a un frutto a polpa con semi o nocciolo e con nux si distingue la frutta a guscio. Il latino medievale conserva in malum il doppio senso di mela e frutto a polpa, ma è ormai necessario accompagnarlo da un aggettivo per comprenderne la specie (es. malum persicum è la pesca, malum armeniacum l’albicocca e malum punicum il melograno).

Come simbolo della realtà. La conoscenza tecnica sugli alberi da frutto è antica e le colture che più affascinarono gli agronomi romani furono in primis l’uva e la mela e nei loro manoscritti sono enumerati i metodi di coltivazione così come le ricette e l’uso che si potevano fare del prodotto raccolto. Nel Medioevo si registra un apparente calo dell’interesse per la frutta come argomento tecnico e, nei testi di quel periodo, si possono trovare solo scarne liste di prodotti coltivati. Gli antichi saperi non vengono perduti, sono però considerati meno importanti dell’aspetto simbolico dei frutti, chiave di lettura dell’ordine del mondo medievale (da qui, la diffidenza nell’innestare i meli, colpevoli di troppa vicinanza con la storia divina della nascita di Eva dalla costola di Adamo che portò l’uomo a nutrirsi del frutto del peccato). Come per molti altri aspetti della realtà poi, la distinzione più importante risultava essere quella tra varietà coltivate e varietà selvatiche, ovviamente, sempre per un discorso culturale, a discapito delle seconde. Una ripresa d’interesse per l’arboricoltura si attesta solo nel XIII secolo, quando lo stimolo è quello di ricercare qualità selvatiche da rendere migliori con la domesticazione. Questo è il periodo in cui si ripone una fiducia quasi sovrannaturale nella tecnica dell’innesto: si tentano di rendere gusti speciali, per esempio, inserendo negli innesti determinate spezie perché rilascino il loro aroma nei frutti della pianta!

Mondo vegetale e mondo umano. Parallelamente a questo ritorno di fiamma per la coltivazione degli alberi da frutto, da un punto di vista dell’alimentazione la frutta subisce invece un destino contraddittorio. Nel Quattrocento i medici sono assolutamente certi che sia meglio non consumarne e la sconsigliano vivamente; anche se presente in gran quantità sulle tavole dei ricchi, è praticamente assente nella dieta del popolo. Dobbiamo dedurre che questo avvenisse perché all’epoca la frutta costava molto di più dei generi di prima necessità, come farina e carne. Ma vi è anche una ragione sociale che rispondeva a una concezione ben precisa dell’ordine del mondo: a quel tempo si riteneva infatti che la frutta, che cresce sugli alberi e lontano dalla terra, fosse un alimento più adatto alla nobiltà mentre le verdure, che crescevano direttamente dal terreno, erano considerate alimenti umili adatte al popolo.