Vedere il film “Unknown: Cave of Bones” mentre leggi il libro “Incarner une spiritualité badass” di Amelle Zaïd.
Un giorno, in pausa pranzo, ho guardato il docufilm “Unknown: La grotta della scoperta”, in cui si raccontava dell’eccezionale scoperta di un luogo di sepoltura di Homo naledi. Cosa c’è di eccezionale? Questo tipo di ominide si trova alla base del cosiddetto cespuglio evolutivo umano, tra le prime forme a essere comparse in terra (africana) o, quanto meno, una delle più vetuste finora ritrovate.
La sua scoperta è così recente che non figura ancora nei libri di scuola.
Ma cos’ha questo nostro antenato di così speciale? Innanzitutto, che non si tratta di un nostro antenato. Era molto diverso da noi e non si è evoluto in Homo sapiens. Quindi ci troviamo nella condizione inedita di ragionare su un Homo che non è Umano. Un po’ come se ci venisse chiesto di immaginare cosa farebbe una giraffa in una certa situazione.
Homo naledi però faceva una cosa molto umana: seppelliva i propri morti.
Le più antiche prove di inumazione vengono fatte risalire a Homo neanderthalensis e sono estremamente più recenti; ma, ormai, siamo abituati a immaginare quest’ultimo come un nostro cugino (anche se gli studi dimostrano come il suo vivere fosse per certi versi molto diverso da quello dei Sapiens, oserei dire molto più connesso al mondo che lo circondava o comunque calato in modo differente nel suo ambiente. Cosa che, naturalmente, sarà molto difficile provare, non potendo fare quattro chiacchiere con nessun Neanderthalensis in vita).
Il succo è che non s’immagina(va) la capacità di pensare la sepoltura dei morti -e conseguente, probabile, idea di un Aldilà- così indietro nel tempo. Per una specie non umana.
Premetto che il documentario è, my two cents, molto bello. Ho amato soprattutto l’aspetto umano (questo sì) del punto di vista degli studiosi. Sarà stato certamente lo zampino degli sceneggiatori, ma il tema della visita alla grotta, dove sono stati rinvenuti i fossili e a cui si deve il titolo, e il cambiamento delle persone una volta uscite da lì, ha sicuramente un bell’effetto emotivo.
D’altronde, la caverna come luogo d’iniziazione, da cui si esce diversi da come si era entrati, è un topos molto potente e diffuso.
Però, nelle parole appassionate degli studiosi del sito, ho ritrovato un elemento che mi ha fatto riflettere. Soprattutto dopo aver letto un passo di “Incarner une spiritualité badass”: a proposito della paura ancestrale della morte, l’autrice sottolinea come in numerose correnti spirituali orientali, accomunate dalla credenza nella reincarnazione, i discepoli vengono istruiti a morire (cosa che ha il suo bel senso, se il decesso viene considerato il rito di passaggio verso una nuova fase) e fa notare come questi insegnamenti siano completamente assenti nei monoteismi.
In pratica a morire è una parte di noi, il corpo fisico, non quello spirituale. Non si tratta di morte = annientamento (cosa che, in realtà dovrebbe essere ugualmente valida per i Cristiani, dove morte = ascensione a Dio). Eppure, nonostante che ritroveremo i nostri cari nell’alto dei cieli in una promessa di beatitudine eterna, non siamo capaci di pensare al momento del trapasso se non intriso di tristezza.
Qui torniamo a Homo naledi. Perché, se nel libro citato si auspica un diverso approccio alla propria morte per non vivere costantemente nel timore di essa (riportando, non a caso, la celebre massima epicurea “quando c’è lei non ci siamo noi” e viceversa), è proprio questo il caso descritto nel film.
Si immaginano queste creature, sottolineando più volte che sono differenti da noi, che intraprendono un doloroso e difficilissimo rituale di sepoltura per sotterrare i propri morti al fondo di una grotta quasi inaccessibile. Nel documentario vengono mostrate figure appena abbozzate, questa una scelta molto intelligente, ma ugualmente contrite per la perdita dei loro cari.
Ma era davvero così?
Non stiamo facendo proprio quello che non andrebbe fatto, cioè appiccicare il nostro pensiero a loro? Se non sono umani, perché li umanizziamo?
E se Homo naledi avesse affrontato l’insidioso percorso gioiosamente e consapevole di contribuire all’evoluzione spirituale dei suoi prossimi?
Immaginare una tale fatica come un calvario, mi sembra molto umano.
Vederlo come un corteo di speranza, lo sembra molto meno.
Se poi si vuole aderire al pensiero delle continue reincarnazioni come gli step necessari a raggiungere il nirvana, non stupisce che noi si sia ancora qui. E Homo naledi si sia estinto. Nel regno dei cieli ormai da molto, molto più tempo di noi.
Il docufilm “Unknown: Cave of Bones” è disponibile su Netflix con il titolo “Unknown: La grotta della scoperta” (qui il trailer).
Il libro “Incarner une spiritualité badass” si trova su Amazon, solo in francese; sempre in francese esiste il podcast Spiritualista, di Amelle Zaïd disponibile su Spotify.
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