Car* appassionat* di discipline storiche… avete mai pensato a quanti oggetti, che arrivano dal passato e ci raccontano la loro storia, hanno a che fare con la religione? Cose -letteralmente- che nascevano con uno scopo preciso e, spesso, avevano tra i loro obiettivi quello di parlare un linguaggio chiaro, di avere un aspetto prezioso e di durare nel tempo. Come artigiana, ogni volta che mi cimento con una nuova creazione mi pongo dei quesiti precisi: che forma e dimensioni deve avere, quali colori e materiali utilizzare, quali elementi mettere in evidenza… Come artigiana so che, quando maneggiate un oggetto fatto a mano, in parte ritrovate il guizzo estroso dell’artista, ma ci sono anche mille storie nascoste sulla sua realizzazione e la sua ideazione.
Come appassionata di discipline storiche, so bene che -contrariamente a quanto ci hanno raccontato fino all’altro ieri- i nostri progenitori non erano delle banali scimmie nude (senza voler offendere nessuna scimmia, eh), ma pensavano e ragionavano esattamente come noi.
Di fronte alla creazione di un oggetto, so che si facevano le stesse domande.

Aprite un libro di storia, ecco cosa vedrete. Ciò che ci rende umani e ci distingue dalle scimmie è che noi abbiamo costruito i primi utensili di pietra (noi, si fa per dire… io riuscirei solo a pestarmi un pollice). È vero che ci sono altri animali che manipolano oggetti per il loro tornaconto, come gli scimpanzè che infilano bastoncini nei termitai per papparsi gli insetti che ci salgono sopra, o le meno esotiche cornacchie che fanno cadere le noci in mezzo alla strada sapendo che un’auto prima o poi ci passerà sopra aprendole per loro… Ma qui si tratta di due manipolazioni diverse: nel caso degli animali è prendere un oggetto o sfruttare una situazione per ottenere un vantaggio. Gli umani manipolano trasformando completamente una cosa e dandogli una nuova funzione; prendere una selce e renderla uno strumento tagliente -tecn. chopper– è un doppio atto creativo: c’è la resa concreta di un’idea (da pietra a oggetto) e c’è una trasformazione della realtà (da materiale comune a utensile speciale).

Digressione. Amo molto il termine manipolare: credo dia davvero la sensazione di “mettere le mani in pasta” e mi piace anche usarlo quando parlo di pensieri, perché m’immagino il nostro cervello come un luogo pieno di idee che possono essere scelte, prese e mescolate per ottenere qualcosa di inedito.
Che dire quando ho cercato il significato sul vocabolario!
manipolare1 [dal lat. manipularis, der. di manipŭlus «manipolo»] – Che si riferisce alla formazione militare romana chiamata manipolo.
manipolare2 [der. del lat. manipŭlus, nel sign. mediev. di «manciata (di erbe medicinali)»; negli usi estens. con più diretto influsso di mano] (io manìpolo, ecc.). – Lavorare una sostanza plasmabile, o un impasto, trattandoli con le mani; anche, ottenere una determinata preparazione mediante l’impasto di vari ingredienti. Fig. a. Mettere insieme elementi di varia provenienza in una rielaborazione grossolana e poco originale. b. Adattare, volgere in senso favorevole a sé stessi, mediante imbrogli e intrighi, allo scopo di ottenere vantaggi personali.
E niente. Quando ci si riferisce ai classici, “manipolare” restituisce l’idea dell’ordine leggendario dell’esercito romano; quando si sposta sul Medioevo magico… è tutto un imbroglio e intrigo! XD

Vantaggio = cibo. C’è una cosa che mi fa sorridere, perché nella definizione di “manipolare” sta scritta proprio la parola chiave che mi ero appuntata per il prossimo paragrafo (che è quello che state leggendo). La parola è vantaggio. Più sopra ho scritto “nel caso degli animali è prendere un oggetto o sfruttare una situazione per ottenere un vantaggio” e il ragionamento non fa una grinza: il vantaggio per la scimmia sono le termiti, per la cornacchia è la noce. Si tratta di ciò che finisce nello stomaco e non è stato diverso per i primi ominidi, per i quali lo strumento tagliente serviva a recidere le parti delle carcasse lasciate dai predatori e poterle così consumare in un posto sicuro (proprio ieri ho visto una gazza ladra fare la stessa cosa al parco: è atterrata non lontano da me con un bel trofeo nel becco, ma poi ne ha presi dei pezzettini che ha mangiato più distante… se fosse arrivato qualcuno a portargli via il pezzo grosso, non sarebbe rimasta a pancia vuota!).
C’è tutta una florida gamma di aggeggi litici preistorici che soddisfano anche l’ominide più esigente: schegge, punte, raschiatoi, percussori, grattatoi, bulini, perforatori, coltelli… per non dire di tutti gli oggetti realizzati in materiali organici (su tutti il legno) che non si sono conservati.
Nota: nel linguaggio tecnico si definisce manufatto un oggetto in pietra che presenta tracce di lavorazione; strumento un manufatto a cui è stata data una forma voluta e funzionale al suo scopo.
Ma poi succede qualcosa.

Sfogliate il libro di storia. Vabbé, lo faccio io per voi che viene più comodo. Dopo la serie di sassi scheggiati per ottenere strumenti utili a qualsiasi cosa servisse nella preistoria (scuoiare una pelle, frantumare un osso per recuperare il midollo, perforare perline), improvvisamente compariranno immagini di sepolture. Esatto, perché l’altra grande cosa che ci rende umani -a detta di chi ci studia- è che ci prendiamo cura dei nostri morti. Oggetti che accompagnano i defunti, pollini ritrovati sul corpo o anche solo l’aver depositato il cadavere in un luogo preciso e non lasciato a caso da qualche parte è indice di uno step evolutivo: rappresenta una preoccupazione che non tutti gli animali hanno, o meglio, non a questo livello. Se nell’umano compare il pensiero della morte, compare allora anche la consapevolezza di un prima e dopo e, soprattutto, di un qui e un altrove.
È proprio questo Altrove che mi affascina di più e che trovate declinato nel mio lavoro: le spirali incise sulle tombe megalitiche indicano un flusso vitale che non si ferma mai e di cui il momento presente è solo un segmento sulla linea a elica del tempo; le pitture in grotta parlano di un mondo che è qui, ma non solo qui; l’Olimpo era un luogo altro in cui risiedevano le divinità, così come per altre culture questo luogo era rappresentato dal mare, dal bosco, dal sottosuolo; e ancora oggi, quando si va in chiesa si manda la propria preghiera verso il cielo, oltre il qui

Rappresentare l’Altro. Ma non sono l’unica che subisce questo fascino, eh! Da sempre gli atti creativi umani sono serviti a raffigurare qualcosa, qualcosa d’altro e talvolta a dare un volto a quel qualcosa che visibile non lo è.
Dopo essersi pensati altrove, i nostri avi si sono immaginati questo Altro-ve abitato da qualcuno. Probabilmente i primi Altri saranno stati gli antenati che poi, a poco a poco, hanno preso le sembianze delle divinità. Anche i culti dell’area europea che avevano una vocazione più, diciamo, animista possedevano comunque un’idea di altri mondi -magari non organizzati gerarchicamente com’è rimasto nel pensiero moderno- ma veri e propri passaggi per dimensioni dello stesso livello (non tanto un sopra e sotto, ma magari un dentro e fuori; sto pensando alle varie dimore nascoste dei personaggi del folclore).
Se un tempo fare era anche un po’ pregare, c’è da chiedersi chi si pregasse. Noi supponiamo che la statua di Atena rendesse omaggio alla dea greca, ed è senz’altro così, perché l’intento di quell’opera è evidente. Oltre che supportata da testimonianze scritte.
Ma che dire di ciò che era prima? Una statuetta femminile con seni e glutei evidenti rappresentava davvero la Dea dell’abbondanza? Lo penseremo ancora tra 200 anni, quando il paradigma culturale sarà mutato?
Una celebre statuetta ritrovata nel Giura Svevo (guardala qui) rappresenta un uomo-leone risalente a 35/41.000 anni fa… gli studiosi si accapigliano da sempre sull’identità della creatura: è un ibrido, un dio, un uomo con un costume, uno sciamano?
Io, da artigiana, penso in realtà al momento in cui l’artista paleolitic* prese in mano una zanna di mammuth e decise di raffigurare la creatura esattamente così. Forse per i suoi contemporanei era sufficiente e il significato scontato, mentre noi abbiamo perso i codici per decifrarne il messaggio.
Oppure, il messaggio della statuetta, è chiaro e lampante e siamo semplicemente noi a porgli le domande sbagliate.