Il Giappone… come ogni persona nata negli anni Ottanta il Giappone è stato tanto distante quanto presente in tutte le mie giornate, ovviamente nello slot delle quattro del pomeriggio, quando si tornava a casa da scuola e si guardavano i cartoni su Bimbumbam (parentesi bimbumboomer, aggiungerei).
Quindi il Giappone mi ha accompagnato, con quei suoi inchini, il bento, le ciabatte lasciate sull’uscio di casa, la fontanella zen con il bambù che ritmicamente segna lo scorrere dell’acqua e del tempo, in un grossa fetta esistenziale che individuerei con il passaggio dall’infanzia all’età adulta (in un’adolescenza che per me è durata tipo 20 anni).
Il mio mito, la mia eroina, lo spirito guida è stata -so che avrete già indovinato- Sailor Moon: correva l’anno 1995 quando la panini iniziò a pubblicare il manga in Italia e di lì a poco, nella piccola ma stracolma edicola di un paesino della provincia torinese, boom mi ci imbattei.

A casa mia, di fumetti ce ne sono sempre stati, si sappia… Un’infanzia a sbirciare, a volte pure con vergogna, le storie disinibite dei Lanciostory o degli Skorpio di mio papà, e la collezione completa, conosciuta quasi a memoria, di Asterìx (che non manca mai nelle case dei francofoni)…
Ma niente era paragonabile alle immagini del manga che avevo tra le mani: quasi poco curati, più bianchi che neri, belli ma essenziali (ho scoperto anni dopo che questo concetto dell’essenzialità ha un nome suo in Giappone ovvero wabi-sabi).
Quelle immagini dicevamo, quel fumetto, e quelli che sono venuti dopo, erano così affascinanti, così strani, così… diversi. Immaginatevi quanto questa diversità potesse fare presa su un’adolescente. Specie un’adolescente che in quegli anni si stava misurando non solo con la propria diversità biologico-ormonale, ma anche con una diagnosi di autismo appena arrivata -non mia eh, ma di mio fratello- che, in un certo modo, è un senso unico per la diversità a vita di una famiglia.

Poi, come ogni ragazzina dell’epoca, quello stile di fumetto ha contagiato ogni mia espressione creativa, non ho più smesso credo di rappresentare il mondo in quello stile, che i giapponesi chiamano kawaii, cioè carino, buffo, puccioso… passando dallo scopiazzare l’autrice tutta occhioni e fiorellini di sailor moon, a quella di nana e vari artisti e mangaka (che sono i fumettisti giapponesi) fino all’essenzialità di riprodurre pochi tratti del viso, come appare Hello Kitty -o come sono le mie madamine!
Al liceo, per ottimizzare lo sperpero di denaro in fumetti, avevo iniziato a smezzarmi le serie con Leonora, la mia unica compagna di classe che condivideva questa passione. I fumetti furono per noi galeotti, se pensate che siamo reciprocamente testimoni di nozze e che se mi state seguendo per i miei pupazzi, grosso del merito è suo.

A parte che il nome “Babacio” che in piemontese significa appunto pupazzo è stata una sua idea; così come sua è la realizzazione del logo, ma -proprio al tempo del liceo- assieme a lei iniziai a scrivere e disegnare fumetti. Il primo nome del nostro sodalizio artistico fu Sglums, nome che doveva ricordare ed essere omaggio alle fumettiste giapponesi Clamp e giustificato da noi come “suono onomatopeico prodotto da una persona che assaggia la bagna caoda per la prima volta e non la trova di suo gusto”… insomma capite la pregnanza dell’idioma piemontese in questo percorso artistico.
Ma non solo perché riuscire a mettere per iscritto le proprie storie, dar vita ai miei personaggi è una roba che non ho più mollato… certo, a fasi più o meno convinte, ma per il seguito di Questa storia dovrete aspettare la prossima puntata.

Ps. La Leonora di cui parlo più sopra è la mia talentuosa amica illustratrice, potete vedere le sue magie al sito Leonora Camusso Illustrator.